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DiAnnamaria Palumbo

La Corte di Cassazione: Illegittimo il licenziamento per uso privato del computer aziendale senza condotta grave

La Corte di Cassazione: Illegittimo il licenziamento per uso privato del computer aziendale senza condotta grave

Con l’ordinanza n. 7825/2025, la Corte di Cassazione ha sancito che il licenziamento di un dipendente per aver utilizzato il computer aziendale per scopi privati è da considerarsi illegittimo, salvo che non si riscontri una condotta di particolare gravità.

Secondo la Corte, l’uso improprio degli strumenti di lavoro forniti dall’azienda non può di per sé giustificare un provvedimento di recesso, a meno che non emerga un intento lesivo verso l’azienda o un comportamento tale da compromettere gravemente il rapporto fiduciario. Nella valutazione della legittimità del licenziamento, è necessario tenere conto di alcuni criteri essenziali, tra cui la limitata entità delle violazioni, l’assenza di un danno concreto e la mancanza di un pregiudizio effettivo per il datore di lavoro.

La decisione della Corte si basa su principi di proporzionalità e ragionevolezza. Per determinare pertanto se il licenziamento sia giustificato, è indispensabile considerare:

  • La gravità della condotta: Un utilizzo sporadico o marginale degli strumenti di lavoro per fini privati non può essere equiparato a un abuso sistematico o intenzionale.
  • L’entità delle violazioni: Se le azioni del lavoratore non hanno comportato un impatto significativo sulle attività aziendali, il provvedimento di licenziamento risulta sproporzionato.
  • L’assenza di danni concreti: In mancanza di un danno economico, operativo o reputazionale per l’azienda, il comportamento del lavoratore non può essere considerato tale da giustificare il recesso.

Questa ordinanza si inserisce nel quadro più ampio del bilanciamento tra i diritti del lavoratore e il potere disciplinare del datore di lavoro, ribadendo che il licenziamento deve essere sempre una misura di ultima istanza. L’utilizzo privato di strumenti aziendali, se non accompagnato da un intento doloso o da gravi conseguenze per l’impresa, non può essere considerato un motivo valido per interrompere il rapporto lavorativo.

In conclusione, è necessario che i datori di lavoro procedano a una valutazione attenta dei comportamenti dei dipendenti prima di adottare provvedimenti disciplinari estremi. È fondamentale che le politiche aziendali siano chiare riguardo l’uso degli strumenti di lavoro e che eventuali violazioni siano gestite in modo proporzionato, privilegiando soluzioni alternative al licenziamento.

DiAnnamaria Palumbo

MOG – CODICI DI COMPORTAMENTO

Ai sensi del terzo comma dell’articolo 6 del D. Lgs. 231/2001, i modelli di organizzazione e di gestione possono essere adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti.

Tali codici di auto-normazione devono comunicati al Ministero della Giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati.

Occorre preliminarmente chiarire che la disposizione non stabilisce una presunzione legale di idoneità del codice di comportamento a prevenire la commissione dei reati presupposto. Essa precostituisce, piuttosto, un semplice indizio di cui il giudice deve tenere conto nella valutazione di efficacia del modello.

Ricordiamo, infatti, che l’idoneità e l’efficacia esimente del modello deve essere apprezzata in concreto ed il relativo giudizio  è rimesso alla libera valutazione del giudice.

In tal senso, non può costituire un precedente una sentenza passata in giudicato che abbia statuito in ordine alla idoneità di un modello del tutto conforme al codice di auto-normazione di categoria, posto che il modello deve essere calibrato in ragione delle peculiarità di ogni singolo ente.

Ciò non significa, tuttavia, che i codici di comportamento non possano costituire un adeguato spunto per l’adozione di un personalizzato modello di organizzazione per la prevenzione dei reati.

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DiAnnamaria Palumbo

MOG – IL SISTEMA DISCIPLINARE

Ai sensi della lettera e) dell’articolo 6 del D. Lgs. 231/2001, l’ente deve introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.

Se da un lato il decreto legislativo non ha offerto alcuna indicazione specifica sul sistema disciplinare, dall’altro la giurisprudenza ha sempre negato efficacia esimente a modelli organizzativi privi di un adeguato sistema disciplinare considerando inidonei i modelli che non prevedano la comminazione di sanzioni disciplinari nei confronti di amministratori, direttori generali e compliance officers che colposamente non abbiano saputo individuare ed eliminare violazioni del modello o la perpetrazione dei reati.

Data la carenza di dettagli normativi sul punto, spetta all’interprete la ricostruzione sistematica dei caratteri e dei contenuti del sistema disciplinare.

In particolare, dalle indicazioni dottrinali e giurisprudenziali si ricavano i seguenti caratteri essenziali.

In primo luogo, deve trattarsi si un sistema sanzionatorio disciplinare interno all’ente e che si aggiunge a quello esterno penale o amministrativo. Le sanzioni devono essere idonee e l’idoneità è verificata sul piano della funzione preventiva. Sarà pertanto efficace quel sistema sanzionatorio che contrasti comportamenti prodromici alla commissione del reato, finendo altrimenti per duplicare inutilmente le sanzioni già poste dall’ordinamento.

L’apparato sanzionatorio, poi, deve essere redatto per iscritto ed adeguatamente divulgato mediante pubblicazione ed affissione in luogo accessibile a tutti; deve essere compatibile con le norme che regolano il rapporto intrattenuto con l’ente e, con riferimento ai consulenti esterni (non sottoponibili a sanzioni disciplinari) i contratti di consulenza devono prevedere apposite clausole penali o risolutive espresse.

Il sistema deve inoltre prevedere una pluralità di sanzioni disciplinari, graduate in ragione della gravità della violazione. In particolare le sanzioni devono spaziare da misure conservative, per le infrazioni più tenui, a provvedimenti idonei a recidere il rapporto di lavoro per i casi di violazioni più gravi.

In ogni caso, l’esercizio dei poteri disciplinari deve conformarsi, oltre che al principio di proporzione, anche al principio del contraddittorio, assicurando il coinvolgimento del soggetto interessato.

Oltre a sanzioni disciplinari, il modello può tuttavia prevedere anche meccanismi premiali riservati a quanti cooperino per l’efficace attuazione del modello. Spesso, infatti, la prospettazione di vantaggi in caso di osservanza delle regole può risultare più efficace della minaccia di sanzioni per la loro violazione.

Importante è poi definire le funzioni aziendali deputate alla comminazione della sanzione.

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OBBLIGHI DI INFORMAZIONE NEI CONFRONTI DELL’ORGANISMO DI VIGILANZA

Ai sensi della lettera d) dell’articolo 6 del D. Lgs 231/2001, il modello deve prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli. In questa lettera, la disposizione contiene due assiomi:

  • la necessaria costituzione di un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo;
  • l’obbligo di dare informazioni all’organismo di vigilanza ossia di realizzare un sistema di reporting di casi di violazioni di norme all’interno dell’ente.

Con riferimento all’istituzione di un organismo di vigilanza, è da osservare che il decreto legislativo 231/2001 non fornisce alcuna indicazione circa la composizione.

E’ necessario, tuttavia, qualunque sia la scelta organizzativa dell’ente, che l’organismo goda di autonomia ed indipendenza, sia dotato di specifiche competenze professionali, si dedichi in modo continuo ed esclusivo all’attività di vigilanza sul modello senza che gli siano affidati compiti operativi.

Ad agevolare l’attività di vigilanza sull’attuazione e sull’efficacia del modello organizzativo, l’articolo in commento prevede l’obbligo di informazione nei confronti dell’organismo di vigilanza.

La prescrizione appare rivolta alle funzioni aziendali che siano a rischio reato e riguardare le risultanze periodiche dell’attività di auto-controllo (così come imposto dal modello) nonché le eventuali anomalie riscontrate.

Per assicurare l’efficacia del sistema di reporting, è necessario poi che sia garantita la riservatezza dell’informazione e del segnalatore, in modo tale che il personale sia facilitato nel riferire di comportamenti contrari al modello senza il timore di ritorsioni.

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GESTIONE DELLE RISORSE FINANZIARIE IDONEA AD IMPEDIRE LA COMMISSIONE DI REATI

Ai sensi della lettera c) dell’articolo 6 del D. Lgs. 231/2001, il modello deve prevedere modalità di gestione delle risorse finanziarie che siano idonee a prevenire la commissione di reati.

Ciò significa che non ogni regola di gestione finanziaria è tale da integrare il contenuto richiesto dal modello, ma solo quelle che impediscono la commissione di reati.

Così, le regole di gestione finanziaria devono essere tutte quelle necessarie e sufficienti ad impedire la commissione di reati.

Le modalità di gestione finanziaria sono idonee a prevenire la commissione di reati, ad esempio, se impediscono la gestione occulta delle risorse (realizzata, ad esempio, a mezzo della formazione di fondi extra-bilancio o della fatturazioni infragruppo, o, ancora, mediante pagamenti di somme sproporzionate per consulenze).

Nella prassi, infatti, la gestione fraudolenta delle risorse finanziarie è il classico veicolo per la commissione di reati nell’interesse dell’ente.

La gestione occulta delle risorse finanziarie può essere impedita dalla previsione di regole di tracciabilità dei flussi finanziari e di imputazione di pagamento. In tal modo viene garantita la possibilità di ricostruire ex post in termini di certezza il punto di partenza e di arrivo del flusso, nonché di individuare con esattezza il titolo giustificativo.

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DiAnnamaria Palumbo

MODELLI 231 – PREVISIONE DI SPECIFICI PROTOCOLLI

Ai sensi della lettera b) dell’art. 6del D. Lgs. 231/2001, l’ente deve prevedere protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni in relazione ai reati da prevenire.

Il sistema di controlli preventivi deve essere tale da non poter essere aggirato che fraudolentemente, nei reati dolosi, o violato nonostante l’osservanza dei doveri di vigilanza dell’Organismo a ciò deputato, nei reati colposi.

In particolare, le componenti di un adeguato sistema di controllo preventivo (cd. protocolli) possono essere così delineate:

  1. adozione di un codice etico che raccomandi un elevato standard di professionalità in linea con gli individuati valori aziendali e che vieti e sanzioni comportamenti in contrasto con le disposizioni normative o i valori deontologici;
  2. previsione di un sistema organizzativo aggiornato, formalizzato e chiaro, soprattutto con riferimento sia alla descrizione delle funzioni, dei compiti, degli incarichi, delle deleghe e delle linee di dipendenza gerarchica, sia all’attribuzione delle responsabilità; nonché previsione di precisi doveri di controllo (anche mediante contrapposizione di funzioni). Il sistema organizzativo può peraltro prevedere adeguati sistemi premianti necessari ad indirizzare le attività verso il raggiungimento degli obiettivi aziendali;
  3. utilizzo di sistemi informativi che regolamentino lo svolgimento delle attività prevedendo opportuni steps di controllo, quali quadrature, approfondimenti informativi su determinati soggetti, ecc.. In particolare, nel settore della gestione finanziaria, efficace è l’abbinamento firme, la separazione di compiti e la contrapposizione di funzioni (es. funzione acquisti e funzione finanziaria). In ogni caso è necessario che siano sempre salvaguardati i principi di trasparenza, verificabilità ed inerenza all’attività aziendale;
  4. assegnazione di poteri autorizzativi e di firma in coerenza con le responsabilità come delineate al punto 2. In particolare, le deleghe devono costituire lo strumento per un più efficace raggiungimento degli obiettivi e non piuttosto un mezzo per trasferire le responsabilità. La delega, pertanto, deve essere formalizzata ed indicare con chiarezza  soggetti, competenze e poteri assegnati (anche di spesa) in coerenza con il principio di segregazione e con i regolamenti aziendali. L’ente deve altresì prevedere un sistema di deleghe aggiornato e documentato al fine di rendere agevole la ricostruzione delle responsabilità, anche a posteriori, e prevedere sanzioni in caso di violazioni dei poteri delegati;
  5. coinvolgimento di tutti i soggetti mediante impiego di capillari meccanismi di comunicazione, consultazione del modello organizzativo e riunioni periodiche nonché di programmi di formazione ed addestramento, funzionali al livello del personale e dispensati mediante sessioni in aula o e-learning. Allo scopo deve anche essere previsto un adeguato sistema di monitoraggio da parte dell’Organismo di Vigilanza;
  6. previsione di sistemi di controllo integrato che considerino i rischi operativi della gestione complessiva dei processi aziendali (anche in considerazione delle interazioni dei processi aziendali) in modo da fornire tempestiva segnalazione di criticità generale e/o particolare alla singola funzione aziendale;
  7. previsione di un sistema di monitoraggio periodico, controllo e documentazione sul mantenimento di misure di prevenzione dei rischi.

In sintesi, possono riassumersi tre livelli di presidio:

  • il primo livello di controllo è svolto nei processi operativi (cd. controllo di linea) direttamente da parte dell’operatore o del suo dirigente, salvo il ricorso a figure specialistiche interne od esterne all’azienda;
  • il secondo livello di controllo è svolto da strutture tecniche indipendenti da quelle di cui al primo livello o dal settore di lavoro sottoposto a verifica al fine di garantire la coerenza del sistema operativo rispetto agli obiettivi aziendali:
  • il terzo livello di controllo (per le imprese medio-grandi) è effettuato mediante audit interno volto a valutare il sistema complessivo di controllo e ad implementarlo mediante piani di miglioramento condivisi con il management.

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INDIVIDUAZIONE DELLE ATTIVITA’ A RISCHIO DI COMMISSIONE DI REATI

Ai sensi della la lettera a) dell’art. 6 del D. Lgs. 231/2001, l’ente deve procedere all’inventariazione degli ambiti aziendali di attività ed all’individuazione delle aree aziendali a rischio e dei reati rilevanti.

Secondo le Linee Giuda di Confindustria, la mappatura del rischio può avvenire secondo approcci diversi (per attività, per funzioni, per processi) ma ognuno finalizzato alla revisione periodica ed esaustiva della realtà aziendale.

L’obiettivo di fondo, comune ai diversi metodi, è quello di individuare le aree che risultano interessate dal potenziale compimento dei reati presupposto, anche avendo riguardo alla storia dell’ente – ossia agli eventuali accadimenti pregiudizievoli pregressi ed alle risposte individuate – ed all’interdipendenza sistematica tra i vari eventi rischiosi.

Nell’ambito del procedimento di revisione dei processi e delle funzioni a rischio, è necessario anche identificare i soggetti sottoposti all’attività di monitoraggio, valutando anche le eventuali ipotesi di concorso nel reato.

E’ poi opportuno compiere esercizi di due diligenze ogni volta che vi siano “indicatori di sospetto” inerenti una data operazione commerciale.

Realizzata così la mappatura delle aree aziendali a rischio, l’ente deve procedere all’analisi specifica dei rischi potenziali propri di ogni area tramite puntuale analisi interna.

Al riguardo è bene osservare come il risultato dell’attività di individuazione delle attività a rischio deve presentare il carattere della specificità.

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DiAnnamaria Palumbo

CONTENUTO DEI MODELLI DI ORGANIZZAZIONE E GESTIONE

I modelli di organizzazione e gestione preordinati ad evitare la commissione di reati costituiscono il momento caratteristico della colpevolezza dell’ente.

Ai sensi dell’articolo 6, comma 2, del D. Lgs., 231/2001 i modelli organizzativi per avere efficacia esimente devono rispondere alle seguenti esigenze:

  1. individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati;
  2. prevedere specifici controlli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire;
  3. individuare le modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;
  4. prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli:
  5. introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.

L’articolo 7 detta regole ulteriori per lo più esplicative di quelle già indicate nell’articolo precedente.

La ratio delle disposizioni mira a delineare in chiave prescrittiva un sistema di gestione del rischio (cd. risk management) che si articola sostanzialmente in due fasi:

– la prima di individuazione dei rischi,

– la seconda di elaborazione di un adeguato sistema di prevenzione e controllo.

In estrema sintesi, deve essere identificata qualsiasi variabile che, nell’ambito dell’azienda, da sola o in concomitanza con altre variabili, possa incidere negativamente sul raggiungimento degli obiettivi fissati nel decreto.

I rischi individuati devono poi essere ridotti, intervenendo sulla probabilità di accadimento dell’evento e sull’impatto pericoloso o lesivo dello stesso.

Allo scopo deve essere progettato un sistema di controllo idoneo a contrastare efficacemente, ossia ridurre ad un livello accettabile, i rischi identificati.

Il modello, così delineato, per essere efficace nel tempo, deve altresì tradursi in un processo continuo – o quanto meno periodico – di adattamento alle mutate realtà aziendali (apertura nuove sedi, ampliamento attività, modifiche organizzative, ecc.) o all’introduzione di nuove fattispecie tra i reati presupposto.

In definitiva, nell’impossibilità di predeterminare analiticamente il contenuto del compliance program, anche alla luce della eterogeneità dei destinatari, la norma individua il contenuto minimo del modello (“l’ossatura”, secondo la migliore dottrina) ossia gli elementi essenziali che ogni modello deve possedere a pena di inidoneità o inefficacia dello stesso.

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CONTRATTI FLESSIBILI – ABUSO

Nei rapporti contrattuali comuni il contratto è sia atto costitutivo del rapporto sia fonte del regolamento negoziale.

Ciò non accade nell’ambito dei rapporti di lavoro, ove il contratto di lavoro crea l’obbligazione ma non la governa poiché a regolare il rapporto intervengono altre fonti, come i CCNL di categoria o altre disposizioni di legge.

La ratio di tale eterointegrazione del contratto è quella di tutelare la parte debole del rapporto, il lavoratore.

Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato rappresenta il rapporto di lavoro che presenta le maggiori tutele per il lavoratore. Il D. Lgs. 81/2015 ha difatti stabilito che: “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.

Il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato rappresenta pertanto la regola nel nostro ordinamento, accanto alla quale si collocano in rapporto di eccezione tutte le altre forme contrattuali “atipiche”, meglio definite come contratti di lavoro flessibile (o non standard).

Il lavoro flessibile si è diffuso intorno alla seconda metà degli anni ’70 per soddisfare bisogni occupazionali temporanei e favorire l’ingresso nel mercato del lavoro. Nel corso degli anni, tuttavia, si è registrato un abuso di tali forme contrattuali, con conseguente abbassamento delle tutele per i lavoratori flessibili.

Il fenomeno ha dato origine a vere e proprie ipotesi di lavoro irregolare.

Alcuni CASI:

  1. Nei contratti di lavoro subordinato part-time: retribuzione fuori busta della differenza di orario svolto;
  2. Nei contratti a tempo determinato: sforamento dei termini di percentuale previsti per le assunzioni a tempo determinato; mancato rispetto del limite stabilito per la successione di contratti nel tempo;
  3. Nei contratti a causa mista: nel contratto di formazione e lavoro l’inadempimento degli obblighi formativi previsti;
  4. Nei contratti a chiamata o di lavoro accessorio: registrazione parziale delle ore di lavoro prestate;
  5. Nei contratti interinali: sforamento del tetto previsto per le assunzioni; violazione dei limiti e delle condizioni previste dalla legge;

Forme di irregolarità si verificano frequentemente nei rapporti di  lavoro autonomo e parasubordinato, ove di fatto si presta un’attività che soddisfa i canoni della subordinazione.

La conseguenza sanzionatoria di tale uso elusivo di forme contrattuali flessibili (autonome o parasubordinate) è la nullità del rapporto di lavoro e l’eventuale riconduzione del rapporto alla tipologia contrattuale comune del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dall’origine.

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LAVORO SOMMERSO – GRADI DI SCOSTAMENTO DALLA NORMA

All’interno della categoria del lavoro sommerso o irregolare possiamo far rientrare diverse ipotesi, le quali si differenziano per il diverso grado di scostamento dall’applicazione delle norme.

  1. La prima ipotesi è quella in cui  vengono utilizzati in modo solo parzialmente corretto gli schemi contrattuali, come ad esempio nel lavoro parzialmente regolare (o grigio).

CASO: il caso è quello del lavoratore che viene denunciato agli enti previdenziali per un numero di ore o di giorni inferiori a quelli effettivamente prestati. Pertanto una parte dell’attività non viene dichiarata e rimane scoperta di tutele.

  1. Altra ipotesi è quella in cui vengono utilizzati schemi contrattuali in modo illecito e/o simulato, come ad esempio nel lavoro elusivo.

CASO: il caso è quello della simulazione del contratto a progetto in luogo di un contratto di lavoro subordinato.

  1. Ulteriore ipotesi è quella in cui non viene utilizzato alcuno schema contrattuale, come nel caso del lavoro nero.

CASO: il caso è quello in cui manca del tutto l’applicazione delle regole previste dal nostro ordinamento.

Il lavoro sommerso è pertanto da intendersi come una categoria generale nella quale rientrano attività lavorative eterogenee.

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