Archivio annuale Aprile 11, 2025

DiAnnamaria Palumbo

Sull’autonomia del patto di non concorrenza rispetto al rapporto di lavoro, Cassazione civile, Sez. Lav. ord. 8 aprile 2025 n. 9256

La sentenza in esame si inserisce in un contesto giuridico complesso in materia di validità e congruità del patto di non concorrenza stipulato tra un datore di lavoro e un dipendente. La questione centrale riguarda la determinazione e l’adeguatezza del corrispettivo previsto per il vincolo di non concorrenza imposto al lavoratore dopo la cessazione del rapporto di lavoro.

Premessa dei fatti

Il caso trae origine dal ricorso ex art. 700 c.p.c. presentato nel 2015 dalla società (OMISSIS) s.p.a. contro il suo ex dipendente, C.D., un private banker. La società chiedeva l’inibizione dello svolgimento di attività concorrenziale da parte del lavoratore, oltre al risarcimento dei danni. Il patto di non concorrenza, stipulato nel 2014 e della durata di 20 mesi dalla cessazione del rapporto, prevedeva un corrispettivo di € 10.000 annui per tre anni, suddivisi in rate semestrali. Tuttavia, il Tribunale di Milano dichiarava nullo il patto, ritenendo il corrispettivo incongruo e indeterminabile, e ordinava la restituzione degli importi percepiti dal lavoratore.

Tale decisione veniva confermata dalla Corte di Appello di Milano nel 2017, che ribadiva l’invalidità del patto per indeterminatezza e sproporzione del compenso rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore.

Intervento della Corte di Cassazione

Con ordinanza n. 33424/22, la Corte di Cassazione annullava la sentenza d’appello, rilevando contraddizioni nella motivazione e rinviando la causa alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione. In sede di rinvio, la Corte d’appello, pur rivedendo parte delle argomentazioni, ribadiva la nullità del patto, sottolineando l’inadeguatezza del compenso rispetto alla durata e all’estensione territoriale del vincolo imposto al lavoratore.

Nuovo ricorso per cassazione

La società proponeva nuovamente ricorso per cassazione, articolando quattro motivi principali:

  1. Violazione dell’art. 2125 c.c. e dell’art. 1346 c.c.: La ricorrente contestava l’obbligo di prevedere un minimo garantito nel patto di non concorrenza, sostenendo che il patto fosse autonomo rispetto al rapporto di lavoro e che l’obbligo di pagamento del compenso sussistesse indipendentemente dalla durata del rapporto.
  2. Nullità della sentenza per motivazione contraddittoria: Si denunciava il contrasto tra l’affermazione della congruità del corrispettivo e la rilevazione della sua incongruità in caso di cessazione anticipata del rapporto.
  3. Motivazione perplessa e apparente: La ricorrente evidenziava incongruenze nella valutazione del compenso pattuito, ritenendo che la durata del rapporto di lavoro non dovesse incidere sulla validità del patto.
  4. Omesso esame di fatti decisivi: Si lamentava l’omissione di considerare il pagamento del corrispettivo anche successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro e l’interruzione dei pagamenti per inadempimento del lavoratore.

La Corte di Cassazione, nella pronuncia n. 9256/2025, ha accolto il primo motivo di ricorso, ritenendo errata la valutazione della congruità del compenso effettuata dalla Corte d’appello. La Suprema Corte ha ribadito che la congruità del corrispettivo deve essere valutata ex ante, ovvero alla luce delle clausole pattuite al momento della stipula del patto, indipendentemente dagli eventi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro.

Principi di diritto stabiliti

La Corte ha chiarito che:

  1. Il patto di non concorrenza ha una natura autonoma rispetto al contratto di lavoro, regolando i rapporti tra le parti dopo la cessazione del rapporto lavorativo.
  2. La congruità del corrispettivo deve essere valutata in relazione al sacrificio richiesto al lavoratore, tenendo conto della durata del patto e dell’estensione territoriale del vincolo.
  3. Eventuali sproporzioni o indeterminatezze del compenso devono essere valutate al momento della stipula del patto e non in base a eventi successivi.

La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata e rinviato la causa alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione per un nuovo esame, attenendosi ai principi sopra esposti. La decisione sottolinea l’importanza di una chiara definizione del compenso nel patto di non concorrenza e della sua adeguatezza rispetto agli obblighi imposti al lavoratore.

DiAnnamaria Palumbo

Licenziamento disciplinare intimato dal MAECI nei confronti di un collaboratore in Pakistan

La Corte d’Appello di Roma ha recentemente affrontato un caso di licenziamento disciplinare intimato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) nei confronti di un collaboratore del Capo Missione presso l’ambasciata italiana in Pakistan. Originariamente, il Tribunale aveva annullato il licenziamento, stabilendo l’applicazione dell’art. 63, c. 2, del d.lgs. 165/2001 per determinare le conseguenze dell’invalido recesso. Tuttavia, la Corte d’Appello ha riformato la sentenza, limitandosi a modificare il quantum del risarcimento del danno e correggendo un errore interpretativo: il contratto di lavoro era soggetto alla legge locale pakistana e non a quella italiana.

Nonostante ciò, la Corte ha determinato che le tutele interne contro il licenziamento illegittimo, quali norme di ordine pubblico, si impongono anche su contratti soggetti a leggi estere. Applicando l’art. 18 della legge n. 300/1970, la Corte ha confermato l’ordine di reintegra del lavoratore e stabilito un risarcimento pari a 12 mensilità.

Il MAECI ha contestato la pronuncia in Cassazione, sollevando tre principali motivi di ricorso. In primo luogo, il Ministero ha evidenziato la necessità di accertare ufficialmente il contenuto della normativa pakistana, sostenendo che il ruolo delle parti fosse meramente sussidiario in tale accertamento. In secondo luogo, ha criticato la scelta della Corte di considerare la normativa pakistana in contrasto con l’ordine pubblico italiano, senza aver effettuato un accertamento completo della stessa. Infine, ha contestato l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, sostenendo che l’espressione dell’ordine pubblico interno in materia di licenziamenti illegittimi risiedesse piuttosto nella legge n. 604/1966, che prevede una tutela risarcitoria obbligatoria e non reintegratoria.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso del MAECI, chiarendo che il contratto di lavoro del collaboratore era soggetto alla disciplina locale pakistana ai sensi dell’art. 154 del d.P.R. n. 18/1967. Tuttavia, ha escluso che la normativa pakistana potesse regolare le conseguenze di un licenziamento illegittimo, poiché non prevedeva né la reintegrazione né un risarcimento adeguato, configurandosi così un contrasto con l’ordine pubblico italiano.

La Cassazione ha ribadito che i rapporti di lavoro con il MAECI, pur regolati da un sistema giuridico speciale, rientrano nel quadro del lavoro pubblico privatizzato. In caso di licenziamento illegittimo, tali rapporti sono soggetti alla normativa italiana, inclusa la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 della legge n. 300/1970. Inoltre, la Suprema Corte ha confermato la giurisdizione del giudice ordinario italiano nelle controversie riguardanti lavoratori assunti presso rappresentanze diplomatiche italiane all’estero, sottolineando la prevalenza delle norme italiane in materia di licenziamenti illegittimi.

In conclusione, la Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Roma, ribadendo che i rapporti regolati dal d.P.R. n. 18/1967, pur soggetti alla legge locale per aspetti sostanziali, devono rispettare le normative italiane per quanto riguarda le conseguenze del licenziamento illegittimo. Tale orientamento rafforza il principio secondo cui le tutele italiane contro i licenziamenti illegittimi prevalgono in contesti di lavoro pubblico privatizzato, anche quando i contratti sono soggetti a leggi estere.

DiAnnamaria Palumbo

Il Ministero del Lavoro chiarisce gli interventi della L. 13 dicembre 2024, n. 203 (Collegato lavoro)

Con la Circolare n. 6 del 27 marzo 2025, il Ministero del Lavoro (ML) ha fornito importanti chiarimenti in merito all’applicazione delle disposizioni introdotte dalla Legge 13 dicembre 2024, n. 203, conosciuta come “Collegato lavoro”. La circolare si concentra sull’approfondimento di alcune norme specifiche, con l’obiettivo di garantire una corretta interpretazione e applicazione delle stesse. Di seguito un’analisi dei principali articoli oggetto di attenzione.

Art. 10 – Modifiche alla disciplina della somministrazione di lavoro (D. Lgs. 15 giugno 2015, n. 81)

L’articolo 10 introduce modifiche significative alla disciplina della somministrazione di lavoro, ridefinendo i limiti e le condizioni relative ai contratti di somministrazione a tempo determinato. La circolare chiarisce i nuovi criteri per il calcolo delle percentuali massime di utilizzo dei somministrati in base alla dimensione aziendale, così come le eccezioni previste per specifiche categorie di lavoratori, come i disoccupati di lunga durata e i giovani in cerca di prima occupazione.

Art. 11 – Norma di interpretazione autentica dell’art. 21, comma 2, del D. Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (attività stagionali)

Con l’articolo 11, si introduce una norma di interpretazione autentica per chiarire l’ambito di applicazione delle deroghe previste per i contratti di lavoro nelle attività stagionali. Il Ministero del Lavoro specifica che le attività stagionali sono quelle individuate dai contratti collettivi e dalle normative settoriali, includendo anche quelle legate a particolari ciclicità produttive. Questo intervento mira a risolvere dubbi interpretativi emersi negli anni precedenti.

Art. 13 – Durata del periodo di prova nei rapporti a tempo determinato

L’articolo 13 disciplina la durata massima del periodo di prova per i contratti a tempo determinato, introducendo un limite proporzionato alla durata complessiva del contratto. La circolare precisa che, per contratti di breve durata, il periodo di prova non può superare una percentuale predeterminata del totale dei giorni lavorati, garantendo così un equilibrio tra le esigenze del datore di lavoro e i diritti del lavoratore.

Art. 14 – Termine per le comunicazioni obbligatorie in materia di lavoro agile

Il lavoro agile, sempre più diffuso in Italia, è oggetto di aggiornamenti normativi con l’articolo 14. La circolare illustra i nuovi termini per l’invio delle comunicazioni obbligatorie, che passano da cinque a dieci giorni lavorativi, al fine di concedere maggiore flessibilità alle aziende. Tale modifica mira a semplificare le procedure amministrative senza compromettere la trasparenza nei rapporti di lavoro.

Art. 19 – Norme sulla risoluzione del rapporto di lavoro

Infine, l’articolo 19 introduce nuove disposizioni in materia di risoluzione del rapporto di lavoro, con particolare riguardo alle procedure di conciliazione obbligatoria. La circolare chiarisce che tali disposizioni si applicano esclusivamente ai rapporti di lavoro subordinato e dettaglia le modalità operative per la gestione delle controversie, promuovendo un approccio conciliativo per ridurre il contenzioso.

DiAnnamaria Palumbo

Cassazione Civile Sez. Lav., 24/03/2025, n. 7826: La tolleranza di condotte illegittime da parte del datore non elimina l’antigiuridicità della condotta del lavoratore

La sentenza n. 7826 del 24 marzo 2025, emessa dalla Cassazione Civile Sez. Lavoro, affronta la relazione tra la tolleranza di condotte illegittime da parte del datore di lavoro e la responsabilità del lavoratore che le pone in essere. Il caso specifico riguardava il licenziamento di un dipendente sorpreso a fumare in una zona vietata, condotta che i giudici di merito avevano ritenuto giustificata in ragione della precedente tolleranza manifestata dall’azienda in situazioni analoghe.

Tuttavia, la Suprema Corte ha cassato tale decisione, ribadendo un principio di diritto fondamentale: la tolleranza di condotte illegittime non fa venire meno l’illiceità della condotta stessa. La mancata reazione da parte del soggetto deputato al controllo – in questo caso, il datore di lavoro – non può automaticamente configurare un’esclusione di responsabilità per il trasgressore.

Secondo la Cassazione, affinché si possa escludere la responsabilità del lavoratore, è necessario che ricorrano ulteriori elementi capaci di ingenerare nel trasgressore una convinzione incolpevole di liceità della condotta. In altre parole, il lavoratore deve essere stato indotto a credere, senza colpa, che il suo comportamento fosse legittimo. Solo in presenza di tali circostanze, non potrebbe essergli mosso neppure un addebito di negligenza.

Con questa decisione, la Corte ha chiarito che la tolleranza non può trasformarsi in una sorta di “sanatoria” delle condotte illecite, salvo che vi siano ragioni particolari e dimostrabili che giustifichino la convinzione di liceità da parte del lavoratore.

DiAnnamaria Palumbo

Cassazione Civile: Sentenza del 22 Marzo 2025, n. 7641 – Decadenza della Potestà Sanzionatoria dell’INPS per omesso versamento delle ritenute previdenziali

La sentenza n. 7641, emessa il 22 marzo 2025 dalla Corte di Cassazione, sezione Lavoro, affronta la questione della decadenza della potestà sanzionatoria dell’INPS per il mancato versamento delle ritenute previdenziali. La pronunciaconferma il rigetto del ricorso dell’INPS e chiarisce principi fondamentali applicabili ai procedimenti sanzionatori amministrativi.

Fatti di causa

La vicenda trae origine da due ordinanze-ingiunzione con cui l’INPS aveva irrogato sanzioni amministrative a Vi.An., per mancato versamento delle ritenute previdenziali in vari periodi tra ottobre 2015 e gennaio 2016. La Corte d’Appello di Torino, con sentenza del 28 settembre 2023, aveva confermato la pronuncia di primo grado, ritenendo maturata la decadenza dall’esercizio della potestà sanzionatoria dell’INPS. Tale decadenza era stata individuata sulla base del termine di cui all’art. 14, comma 2, della L. n. 689/1981, considerando come dies a quo la data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 8/2016 (6 febbraio 2016), che aveva parzialmente depenalizzato l’illecito.

L’INPS proponeva ricorso per cassazione, contestando tale interpretazione e sostenendo che il caso in esame dovesse essere disciplinato esclusivamente dagli artt. 8 e 9 del D.Lgs. n. 8/2016, senza applicazione della decadenza prevista dall’art. 14 della L. n. 689/1981. Vi.An., dal canto suo, resisteva con controricorso, mentre il Pubblico ministero depositava memoria.

Ragioni della decisione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’INPS, affermando che il termine di novanta giorni previsto dall’art. 9, comma 4, D.Lgs. n. 8/2016 per la notifica della violazione amministrativa al responsabile deve essere inteso come termine di decadenza. Tale interpretazione trova fondamento nel principio di legalità sancito dagli artt. 23 e 97 della Costituzione, nonché nel diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost.

La Corte ha chiarito che, in assenza di trasmissione degli atti da parte dell’autorità giudiziaria all’INPS, il dies a quo per il decorso del termine decadenziale deve essere individuato nella data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 8/2016 (6 febbraio 2016). Tale soluzione è giustificata dalla necessità di garantire la certezza giuridica e la tempestiva definizione della posizione dell’incolpato, evitando che l’inerzia dell’autorità giudiziaria possa pregiudicare il diritto alla difesa.

Principio di diritto enunciato

La Corte ha enunciato il seguente principio di diritto:
“Il termine di novanta giorni dalla ricezione degli atti dall’autorità giudiziaria, entro il quale, a norma dell’art. 9, comma 4, D.Lgs. n. 8/2016, l’INPS deve notificare al responsabile la violazione amministrativa concernente il mancato versamento delle ritenute previdenziali, parzialmente depenalizzata ai sensi dell’art. 3, comma 6, del medesimo decreto legislativo, è fissato a pena di decadenza dall’esercizio della potestà sanzionatoria e, in caso di mancata trasmissione degli atti da parte dell’autorità giudiziaria, decorre dal momento di entrata in vigore del D.Lgs. n. 8/2016 (6.2.2016), ove dal vaglio di merito risulti che, in concreto, l’accertamento delle violazioni non ha richiesto da parte dell’INPS alcuna attività istruttoria.”

La novità e complessità della questione trattata hanno giustificato la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

DiAnnamaria Palumbo

Corte di Cassazione: diritto all’Ape sociale esteso anche ai disoccupati senza indennità di disoccupazione

Con la sentenza n. 7846/2025, la Corte di Cassazione ha introdotto un importante principio di diritto per quanto riguarda l’accesso all’Ape sociale, ampliandone la platea dei beneficiari. Secondo quanto stabilito, il diritto all’Ape sociale non è limitato esclusivamente ai disoccupati che hanno usufruito dell’indennità di disoccupazione, ma include anche coloro che, pur essendo disoccupati, non hanno beneficiato di tale indennità perché non spettante, purché siano in possesso dei requisiti di anzianità e contributivi previsti dalla normativa.

Un passo avanti per la tutela sociale dei disoccupati

L’Ape sociale, introdotta per favorire l’uscita anticipata dal mondo del lavoro di categorie meritevoli di tutela, ha finora richiesto, tra i suoi criteri di accesso, l’aver percepito un’indennità di disoccupazione. Tuttavia, la sentenza della Cassazione cambia radicalmente questo approccio. La Corte ha infatti riconosciuto che l’esclusione di chi, pur essendo disoccupato, non ha avuto accesso alla disoccupazione per motivi tecnici, rappresenta una disparità di trattamento ingiustificata rispetto ai principi di equità e tutela sociale.

I requisiti per accedere all’Ape sociale

Con questa nuova interpretazione, il diritto all’Ape sociale viene garantito anche a chi:

  • Si trova in stato di disoccupazione.
  • Non ha ricevuto l’indennità di disoccupazione perché non spettante, ad esempio per un rapporto di lavoro cessato senza diritto a tale indennità.
  • Rispetta i requisiti di anzianità contributiva (almeno 30 o 36 anni a seconda dei casi) e appartiene alle categorie previste dalla legge, come lavoratori impiegati in mansioni gravose, caregiver o persone con invalidità civile.

Le motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha evidenziato che il principio cardine della normativa sull’Ape sociale è la tutela di categorie vulnerabili, favorendo un accesso anticipato alla pensione in situazioni di difficoltà socioeconomica. Pertanto, subordinare il diritto all’Ape sociale alla percezione dell’indennità di disoccupazione escluderebbe ingiustamente individui che, pur avendo vissuto situazioni di disoccupazione e precarietà, non hanno avuto la possibilità di beneficiare di tale indennità per ragioni indipendenti dalla loro volontà.

La decisione della Corte di Cassazione sottolinea l’importanza di una lettura estensiva delle norme sociali, in linea con i principi di giustizia ed equità. I lavoratori disoccupati, anche quelli esclusi dall’indennità di disoccupazione, potranno ora vedersi riconosciuto il diritto all’Ape sociale, aprendo la strada a una maggiore inclusione e protezione per le fasce più fragili della popolazione.

DiAnnamaria Palumbo

Illegittimo il licenziamento del dipendente che utilizza permessi 104 senza comunicare all’azienda le ragioni dell’assenza: il semplice vizio di comunicazione non consente il recesso

La tutela dei lavoratori che beneficiano dei permessi previsti dalla legge 104/1992 è stata recentemente oggetto di una significativa decisione della Corte di Cassazione (ord. 5611/2025), la quale ha affermato che la mancata comunicazione sull’utilizzo dei permessi 104 non può essere considerata equivalente a un’assenza ingiustificata, a meno che tale equiparazione non sia esplicitamente prevista dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) applicabile al rapporto di lavoro.

La legge 104/1992 è uno strumento fondamentale per garantire il diritto dei lavoratori a prendersi cura di familiari con disabilità, prevedendo permessi retribuiti che devono essere utilizzati nel rispetto delle normative vigenti. Tuttavia, il caso in esame solleva una questione rilevante: cosa accade quando il lavoratore non comunica preventivamente al datore di lavoro le ragioni dell’assenza legate ai permessi 104?

La Suprema Corte ha stabilito che l’omessa comunicazione da parte del dipendente non può automaticamente giustificare il licenziamento, trattandosi di un mero vizio formale e non di una violazione sostanziale. Di conseguenza, un recesso motivato esclusivamente da tale mancanza è da considerarsi illegittimo. Questa posizione si basa sull’importanza di bilanciare il diritto del lavoratore a beneficiare dei permessi previsti dalla legge con l’esigenza del datore di lavoro di mantenere la continuità organizzativa.

➡️ Una riflessione sul ruolo della procedura delle dimissioni di fatto
Il caso apre un interessante spunto di riflessione riguardo alla procedura delle dimissioni di fatto introdotta dal Collegato Lavoro. Cosa sarebbe successo se il datore di lavoro avesse scelto questa strada, dichiarando il lavoratore dimissionario in base al presunto comportamento omissivo? Questo interrogativo mette in luce l’importanza dell’intervento dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro (ITL), che avrebbe certamente esaminato la legittimità della procedura adottata.

In uno scenario simile, il lavoratore avrebbe potuto impugnare le dimissioni involontarie, dimostrando che l’assenza era giustificata dall’utilizzo dei permessi 104, sebbene non comunicata in modo tempestivo. Questo avrebbe potuto portare alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, con tutte le conseguenze economiche e giuridiche del caso.

La decisione della Corte di Cassazione costituisce un importante richiamo per i datori di lavoro, sottolineando l’importanza di operare con cautela e nel pieno rispetto delle normative prima di procedere con misure drastiche come il licenziamento. Parallelamente, rappresenta uno stimolo per i lavoratori a mantenere una comunicazione trasparente e tempestiva, indispensabile per prevenire incomprensioni e situazioni di conflitto.

DiAnnamaria Palumbo

È legittimo il licenziamento disciplinare notificato via PEC dell’avvocato: la sentenza della Corte di Cassazione n. 7480/2025

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7480/2025, ha affrontato la questione della validità della notifica del licenziamento disciplinare via PEC all’avvocato del lavoratore, nel caso in cui quest’ultimo abbia eletto il proprio domicilio presso il legale durante il procedimento disciplinare.

La controversia nasce dalla contestazione di un licenziamento disciplinare da parte di un lavoratore che, durante il procedimento disciplinare, aveva formalmente eletto domicilio presso il proprio avvocato. Al termine del procedimento, il datore di lavoro ha notificato il provvedimento di licenziamento tramite posta elettronica certificata (PEC) direttamente al legale del lavoratore.

Il lavoratore, contestando la legittimità della notifica, ha sostenuto che il licenziamento avrebbe dovuto essere comunicato personalmente a lui oppure con modalità diverse rispetto alla PEC inviata al suo avvocato. La questione è stata quindi sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione.

Con la sentenza n. 7480/2025, la Suprema Corte ha chiarito che la notifica del licenziamento disciplinare via PEC all’avvocato del lavoratore è da considerarsi pienamente legittima, a condizione che il lavoratore abbia esplicitamente eletto domicilio presso il legale durante il procedimento disciplinare.

Secondo la Corte, l’elezione del domicilio presso il proprio avvocato comporta l’assunzione di tutte le conseguenze legali relative alla ricezione di atti e comunicazioni inerenti al procedimento. Pertanto, il datore di lavoro che invia la comunicazione di licenziamento al domicilio eletto adempie correttamente all’obbligo di notifica.

La sentenza si fonda su due principi fondamentali:

• La libertà di elezione del domicilio: Il lavoratore ha il diritto di scegliere un domicilio per la ricezione di atti e comunicazioni, compreso quello presso il proprio avvocato. Tale scelta è vincolante per tutte le parti del procedimento.

• La validità della PEC come mezzo di comunicazione ufficiale: La PEC costituisce uno strumento legale e idoneo per la trasmissione di atti ufficiali, garantendo certezza giuridica e tracciabilità della comunicazione.

La decisione della Corte ribadisce la centralità del principio di correttezza nelle comunicazioni legali e sottolinea come l’elezione del domicilio presso un avvocato sia una scelta che comporta precisi obblighi e responsabilità. Il licenziamento disciplinare notificato via PEC all’avvocato del lavoratore, in presenza di un’esplicita elezione di domicilio, è dunque legittimo e conforme alle disposizioni di legge.

DiAnnamaria Palumbo

Smart working per i lavoratori disabili: un accomodamento ragionevole

Il Tribunale di Mantova, con la sentenza n. 77 del 5 marzo 2025, ha riaffermato il diritto dei lavoratori con disabilità di accedere allo smart working, riconoscendolo come una misura essenziale per proteggere la salute e garantire pari opportunità nel mondo del lavoro.

La vicenda giudiziaria ha avuto origine dalla richiesta di un lavoratore disabile di poter svolgere le proprie mansioni in modalità smart working per almeno tre giorni alla settimana, una soluzione indispensabile per tutelare la sua salute, come dimostrato dalla documentazione medica fornita. Nonostante la chiarezza delle esigenze del dipendente, il datore di lavoro aveva inizialmente rigettato la proposta, giustificando il diniego con presunte necessità organizzative e contestando l’applicabilità del principio di “accomodamento ragionevole”. A suo avviso, le attività assegnate al dipendente non sarebbero state compatibili con il lavoro da remoto.

Il Tribunale di Mantova ha esaminato nel dettaglio la questione, valutando attentamente sia la documentazione medica presentata dal lavoratore sia le motivazioni avanzate dal datore di lavoro. Dopo un’analisi approfondita delle prove, il giudice ha riconosciuto che il diritto del dipendente a lavorare in modalità smart working era pienamente legittimo e necessario per salvaguardare la sua salute, garantendo al contempo un ambiente lavorativo equo e privo di discriminazioni. Con la sentenza, il tribunale ha dunque ordinato al datore di lavoro di consentire al dipendente di svolgere le proprie mansioni da remoto per almeno tre giorni a settimana.

L’Importanza dell’Accomodamento Ragionevole

Il principio di accomodamento ragionevole, previsto dalla normativa nazionale e internazionale, rappresenta uno strumento cruciale per eliminare le barriere che ostacolano l’accesso al lavoro per le persone con disabilità. Questo principio richiede che il datore di lavoro adotti misure adeguate e proporzionate alle necessità del lavoratore, salvo che tali interventi comportino un onere eccessivo per l’organizzazione.

In questa circostanza, il Tribunale ha evidenziato che il lavoro agile non rappresentava un ostacolo rilevante all’efficienza aziendale, bensì una scelta bilanciata che permetteva di tutelare il diritto del lavoratore disabile a essere pienamente incluso nella vita professionale.

La sentenza del Tribunale di Mantova si colloca in un contesto giuridico sempre più attento alla protezione dei diritti dei lavoratori fragili. Costituisce un importante punto di riferimento, sottolineando che lo smart working per le persone con disabilità non è semplicemente un beneficio concesso, ma una misura fondamentale di equità sociale e di valorizzazione della dignità personale.

DiAnnamaria Palumbo

La legittimità del trasferimento per incompatibilità ambientale: una recente pronuncia del Tribunale di Milano

Il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 581 del 10 febbraio 2025 (sez. lav.), ha affrontato una questione di grande rilevanza per il diritto del lavoro e per la tutela dei caregiver: il bilanciamento tra il diritto alla stabilità lavorativa previsto dall’art. 33, comma 5, della L. 104/1992 e la necessità di gestire situazioni di conflittualità ambientale sul posto di lavoro.

La normativa vigente tutela il lavoratore caregiver, ossia chi si occupa di un familiare con disabilità grave, stabilendo che non possa essere trasferito senza il suo consenso, salvo che vi siano motivazioni oggettive e dimostrate, differenti dalle comuni necessità organizzative aziendali. Questa disposizione mira a garantire al caregiver la possibilità di bilanciare l’attività lavorativa con le responsabilità assistenziali, prevenendo trasferimenti che potrebbero mettere a rischio tale equilibrio.

La sentenza del Tribunale di Milano in commento ha apportato una significativa precisazione: la protezione del ruolo del caregiver non deve essere intesa in modo rigido e privo di considerazione per le esigenze operative che potrebbero ostacolare l’efficienza dell’organizzazione. In particolare, il caso esaminato riguardava una lavoratrice caregiver coinvolta in una situazione di forte conflittualità con il proprio team, tanto da incidere negativamente sul clima aziendale e sulla produttività complessiva.

Il Tribunale ha stabilito che, in caso di comprovata incompatibilità ambientale tale da rendere insostenibile la permanenza della lavoratrice nella sede di origine, il trasferimento può essere ritenuto legittimo anche senza il consenso della stessa. La decisione si fonda su un’interpretazione sistematica della normativa, volta a garantire un bilanciamento tra i diritti individuali del lavoratore e le necessità operative dell’azienda.

La pronuncia evidenzia che l’incompatibilità ambientale deve essere dimostrata mediante elementi oggettivi e documentati, non riconducibili alle normali dinamiche organizzative o relazionali. Solo in presenza di circostanze eccezionali, che non possono essere gestite tramite interventi di mediazione interna, il datore di lavoro ha facoltà di procedere al trasferimento, garantendo il rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza.

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