Archivio mensile Aprile 24, 2025

DiAnnamaria Palumbo

Indebito retributivo nel pubblico impiego privatizzato: irrilevanza dell’affidamento del dipendente. Cassazione civile, sez. lav., n. 8136 del 27 marzo 2025

La recente sentenza della Cassazione civile, sez. lav., n. 8136 del 27 marzo 2025 , ha ribadito un principio fondamentale in materia di pubblico impiego privatizzato: il dipendente non può vantare un diritto quesito a continuare a percepire, o a trattenere se già corrisposto, un trattamento economico privo di fondamento nel contratto collettivo. Questo principio si applica anche laddove tale trattamento risulti di miglior favore per il lavoratore.

Nel pubblico impiego privatizzato, gli aspetti retributivi sono integralmente demandati alla contrattazione collettiva. Di conseguenza, a differenza di quanto avviene nel settore privato, non rileva il fatto che il datore pubblico abbia consapevolmente e volontariamente corrisposto somme non dovute. Questo significa che, anche in presenza di un comportamento che potrebbe sembrare concludente da parte dell’amministrazione, non si consolida un diritto del dipendente a mantenere tali somme.

Un elemento centrale della sentenza è l’irrilevanza del mero affidamento del dipendente. In altre parole, il fatto che il lavoratore abbia fatto affidamento sulla continuità del trattamento economico percepito non è sufficiente a generare un diritto alla retribuzione, se questa non trova fondamento nella normativa del contratto collettivo applicabile.

La pronuncia della Corte è stata emessa in relazione al caso di una dipendente di un’autorità di bacino, che era stata obbligata a restituire le retribuzioni percepite per un lungo periodo di assenza dovuta a una grave patologia oncologica. La Corte ha confermato l’obbligo di restituzione, evidenziando che in tali situazioni non opera alcuna tutela legata all’affidamento del lavoratore rispetto alla somma percepita.

Questa sentenza assume rilevanza cruciale per il pubblico impiego privatizzato, delineando chiaramente i limiti dei diritti economici dei dipendenti e sottolineando il primato della contrattazione collettiva. I datori di lavoro pubblici devono prestare particolare attenzione alla correttezza dei trattamenti economici erogati, mentre i dipendenti devono essere consapevoli che il mero fatto di aver percepito una retribuzione non conforme al contratto collettivo non è sufficiente a consolidarne il diritto.

La pronuncia rappresenta una conferma della linea rigorosa adottata dalla giurisprudenza in materia di indebiti retributivi nel pubblico impiego.

DiAnnamaria Palumbo

Lavoro straordinario e regolamenti interni illegittimi. Cassazione Civile, Sez. Lav., Sentenza n. 8089/2025

Il 27 marzo 2025, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha depositato la sentenza n. 8089/2025, che affronta temi legati al pagamento del lavoro straordinario e alla corretta interpretazione dei regolamenti interni aziendali. La vicenda nasce dal ricorso presentato da un gruppo di lavoratori contro il Centro di Riferimento Oncologico (CRO), in merito alla presunta mancata retribuzione di ore straordinarie e pause lavorative decurtate automaticamente dal datore di lavoro.

La controversia ha avuto origine da un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Pordenone, che riconosceva ai lavoratori il diritto a ricevere il pagamento per il lavoro svolto durante le pause e i primi dieci minuti risultanti dai cartellini presenze. Tuttavia, la Corte d’Appello di Trieste ha poi revocato tale decreto, escludendo che la sentenza resa in altra causa – nella quale era stata accertata l’illegittimità delle clausole del Regolamento del CRO che prevedevano la decurtazione automatica, dall’orario svolto e registrato dai cartellini presenza, di trenta minuti per godimento della “pausa” e dei primi dieci minuti eccedenti rispetto all’orario contrattuale – potesse automaticamente fondare i diritti retributivi rivendicati dai lavoratori in questa causa.

Uno dei punti centrali della decisione della Corte d’Appello è stata la mancanza di prova di una preventiva autorizzazione, anche solo implicita, per lo svolgimento delle ore straordinarie. Inoltre, la Corte ha ritenuto che le ore di lavoro effettivamente svolte, comprese le pause lavorative, risultassero già “recuperate o retribuite”, lasciando irrisolta la questione delle presunte ore aggiuntive.

I lavoratori, nel ricorso per Cassazione, hanno sollevato quattro principali motivi di contestazione:

  1. Violazione delle norme di diritto e di contrattazione collettiva, sostenendo che la Corte d’Appello avesse erroneamente richiesto la prova di un’autorizzazione per il lavoro straordinario, anche in situazioni in cui non era necessaria.
  2. Erronea valutazione delle prove, con particolare riferimento ai cartellini presenze, considerati come documenti assimilabili alle scritture contabili.
  3. Motivazione apparente della sentenza impugnata, accusando la Corte d’Appello di non aver adeguatamente argomentato le proprie conclusioni.
  4. Omesso esame di un fatto decisivo, legato al mancato adempimento, da parte del CRO, di una precedente sentenza che dichiarava illegittime le decurtazioni automatiche previste dal Regolamento aziendale.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, confermando la decisione della Corte d’Appello. Tra i punti chiave della sentenza:

  • L’assenza di autorizzazione al lavoro straordinario: La Cassazione ha ribadito che non era stata fornita prova concreta dello svolgimento di ore lavorative eccedenti quelle già retribuite o recuperate, né di una loro autorizzazione.
  • Cartellini presenze e valore probatorio: I cartellini presenze non possono essere assimilati ai libri contabili, né sono sufficienti a dimostrare l’effettivo svolgimento di attività lavorativa durante gli intervalli di tempo registrati.
  • Illegittimità del Regolamento e diritti retributivi: L’illegittimità delle clausole regolamentari aziendali non comporta automaticamente il diritto alla retribuzione di ore straordinarie, in assenza di prove concrete.
  • Valutazione delle prove: La Corte ha sottolineato che la valutazione delle prove spetta al giudice di merito e non può essere sindacata in sede di legittimità, salvo casi di evidente travisamento, che non si sono riscontrati nel caso in esame.

La decisione sottolinea l’importanza di fornire prove concrete e dettagliate per dimostrare la sussistenza di diritti retributivi, anche in presenza di regolamenti interni dichiarati illegittimi.

DiAnnamaria Palumbo

Cassazione Civile Sez. Lav., 27/03/2025, n. 8072: un approfondimento sulla funzione della Suprema Corte

La sentenza n. 8072 emessa il 27 marzo 2025 dalla Sezione Lavoro della Cassazione Civile offre un’importante occasione per riflettere sul ruolo e i limiti della Suprema Corte nel nostro ordinamento giuridico. In questo caso specifico, la Corte ha confermato la correttezza della decisione di merito, ribadendo alcuni principi fondamentali in materia di giudizio di legittimità.

La Cassazione, come è noto, non è un organo deputato alla rivalutazione dei fatti o delle prove emerse nel corso del processo. Il suo compito principale è quello di verificare la conformità delle sentenze ai principi di diritto, garantendo così un’applicazione uniforme della legge su tutto il territorio nazionale. Questo principio è stato ribadito nella sentenza in esame, in cui i giudici supremi hanno sottolineato che il ricorso per cassazione non può essere utilizzato come uno “strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio”.

La Corte ha puntualizzato che spetta esclusivamente al giudice di merito il compito di valutare le prove e individuare le fonti del proprio convincimento. Questo include il controllo sull’attendibilità e la concludenza degli elementi probatori, nonché la scelta di quali risultanze processuali considerare prevalenti. Tale libertà valutativa è limitata solo nei casi espressamente previsti dalla legge, ma al di fuori di questi il giudice di merito gode di un’ampia discrezionalità.

Nel caso in esame, il ricorso presentato dal datore di lavoro mirava a contestare la presunta ingiustizia della sentenza d’appello. Tuttavia, la Cassazione ha ritenuto che la Corte d’appello avesse svolto un ragionamento corretto e ben argomentato, conforme ai principi di diritto. Pertanto, i giudici supremi hanno respinto il ricorso, confermando la sentenza impugnata.

Questa decisione conferma l’importanza del rispetto dei ruoli e dei limiti tra i diversi gradi di giudizio. La Cassazione non si configura come un terzo grado di merito, ma come un organo di garanzia della legalità e della coerenza giuridica. La sentenza n. 8072 del 2025 rappresenta quindi un’importante riaffermazione del principio secondo cui la valutazione dei fatti compete esclusivamente ai giudici di merito, mentre la Cassazione si occupa esclusivamente del controllo di legittimità.

DiAnnamaria Palumbo

L’obbligo di iscrizione alla Gestione separata per i professionisti iscritti a un Albo professionale si basa sull’abitualità dell’attività, indipendentemente dalla soglia reddituale. Cassazione Civile Sez. Lav., Sentenza n. 8491 del 31 marzo 2025

Il ricorrente aveva impugnato due avvisi di addebito relativi al recupero dei contributi dovuti alla gestione separata per gli anni 2009 e 2010, contestando la legittimità sia dell’iscrizione d’ufficio sia delle sanzioni applicate. Il Tribunale di Ancona aveva inizialmente confermato l’obbligo contributivo, mentre la Corte d’Appello aveva rigettato le doglianze del professionista, accogliendo parzialmente il ricorso incidentale dell’INPS. La questione è giunta quindi in Cassazione con cinque motivi di ricorso.

I motivi di ricorso e le decisioni della Corte

1. Obbligo di iscrizione alla Gestione Separata e soglia reddituale

Il ricorrente sosteneva che l’iscrizione alla gestione separata non fosse dovuta per redditi inferiori a 5.000 euro. La Corte ha ribadito la consolidata giurisprudenza secondo cui l’obbligatorietà dell’iscrizione è collegata all’esercizio abituale della professione, indipendentemente dal superamento della soglia reddituale. La soglia di 5.000 euro, infatti, rileva solo per le attività occasionali, non per quelle abituali. Di conseguenza, il primo motivo è stato respinto.

2. Prescrizione dei crediti contributivi

Il secondo motivo riguardava la presunta prescrizione dei contributi. La Corte ha evidenziato che i termini di prescrizione erano stati differiti da specifici D.P.C.M. applicabili agli anni in questione. Pertanto, gli atti interruttivi notificati dall’INPS erano tempestivi e il credito non era prescritto. Anche questo motivo è stato respinto.

3. Regime sanzionatorio

Il terzo motivo, relativo all’applicazione delle sanzioni per evasione contributiva anziché per omissione, è stato accolto. La Corte ha applicato i principi dello “ius superveniens” derivanti dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 104/2022, che ha dichiarato l’illegittimità delle sanzioni per omessa iscrizione alla gestione separata per periodi antecedenti all’entrata in vigore della normativa.

4. Calcolo dei contributi e soglia di esenzione

Il quarto motivo, che pretendeva di individuare nella soglia di 5.000 euro un’esenzione contributiva, è stato rigettato. La Corte ha chiarito che il superamento della soglia comporta l’obbligo di contribuzione per l’intero reddito, senza alcuna esenzione per la parte inferiore a tale importo.

5. Efficacia esecutiva dell’Avviso di addebito

L’ultimo motivo, relativo alla legittimità dell’avviso di addebito, è stato dichiarato inammissibile per difetto di interesse, poiché non avrebbe comunque condotto alla cassazione della sentenza impugnata.

In conclusione, sebbene il ricorrente abbia ottenuto l’annullamento delle sanzioni, l’obbligo contributivo è stato confermato, rafforzando il principio di tutela previdenziale anche per i redditi più bassi.

DiAnnamaria Palumbo

Decorrenza della prescrizione in materia di esposizione ad amianto. Cassazione Civile, Sez. Lavoro, Sentenza n. 8630 del 1° aprile 2025:

La controversia trae origine dalla richiesta della ricorrente di ottenere, quale coniuge superstite, la rivalutazione contributiva del de cuius per esposizione ad amianto. In primo grado, la domanda era stata accolta, ma la Corte d’Appello di Potenza ha riformato tale decisione, rigettando la richiesta sulla base del decorso del termine prescrizionale decennale, ritenuto iniziato dalla data del pensionamento del lavoratore. La ricorrente ha impugnato la sentenza d’appello, sostenendo che il termine di prescrizione non potesse decorrere dal pensionamento, ma dal momento in cui vi fosse stata effettiva consapevolezza dell’esposizione all’amianto.

I motivi di ricorso

Il ricorso della parte ricorrente si articolava in sette motivi principali, tra cui:

  1. Violazione processuale (art. 434 c.p.c.): mancata declaratoria di inammissibilità del gravame in appello.
  2. Insufficienza motivazionale: mancanza di una chiara esposizione delle ragioni della decisione in appello.
  3. Omesso esame di fatti decisivi: in particolare, la presentazione della domanda amministrativa nel 2016 da parte del coniuge superstite e non del lavoratore deceduto.
  4. Erronea applicazione della normativa sulla prescrizione (art. 2935 c.c.): decorrenza del termine dal momento del pensionamento senza considerare la consapevolezza dell’esposizione.
  5. Errata valutazione probatoria (artt. 2727 e 2729 c.c.): mancanza di elementi indiziari che dimostrassero la conoscenza dell’esposizione da parte del lavoratore al momento del pensionamento.
  6. Omessa considerazione del rilascio della certificazione INAIL nel 2007, unico elemento utile a comprovare la conoscenza dell’esposizione.
  7. Violazione di principi in tema di prescrittibilità del diritto: ritenuta prescrittibilità del diritto alla rivalutazione per soggetti già pensionati.

La Corte di Cassazione ha esaminato i motivi di ricorso e ha stabilito quanto segue:

  • Primo motivo: dichiarato inammissibile per difetto di specificità, in quanto il ricorso non offriva elementi sufficienti per una verifica concreta delle censure.
  • Settimo motivo: rigettato, confermando la prescrittibilità del diritto alla rivalutazione contributiva come diritto autonomo rispetto al diritto alla pensione.
  • Quarto e quinto motivo: accolti, ritenendo che la Corte d’Appello avesse errato nel fissare il decorso della prescrizione al momento del pensionamento senza accertare la consapevolezza dell’esposizione ad amianto da parte del lavoratore.
  • Restano assorbite le censure di cui agli altri motivi.

Principi di diritto ribaditi

La Corte ha sottolineato che il diritto alla rivalutazione contributiva per esposizione ad amianto è soggetto a prescrizione decennale, ma il termine decorre solo dal momento in cui l’interessato abbia avuto conoscenza (o potesse ragionevolmente averla) dell’esposizione oltre soglia. Questo principio impone un rigoroso accertamento della consapevolezza o conoscibilità del fatto, che la Corte d’Appello aveva omesso di compiere.

Esiti e rinvio

La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e ha rinviato la causa alla Corte d’Appello di Potenza in diversa composizione, affinché riesamini il caso alla luce dei principi di diritto ribaditi. La Corte d’Appello dovrà inoltre provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

DiAnnamaria Palumbo

Un Caso di Licenziamento Legittimo per Violazione delle Pause Lavorative

La Vicenda

Il lavoratore, addetto al servizio di raccolta rifiuti porta a porta, era stato accusato di trattenersi in modo prolungato e frequente presso esercizi pubblici-bar durante l’orario lavorativo, in violazione dell’articolo 8 del D.Lgs. n. 66/2003 e delle disposizioni contrattuali. Le prove raccolte includevano una relazione investigativa, dati GPS dei mezzi aziendali e testimonianze, che dimostrarono un comportamento non conforme agli obblighi lavorativi.

In particolare, il controllo investigativo, affidato a un’agenzia esterna, venne avviato solo dopo che il datore di lavoro aveva maturato sospetti di condotte fraudolente. Tali sospetti erano stati sollevati dall’analisi dei sistemi di tracciamento GPS, che evidenziavano soste prolungate incompatibili con lo svolgimento regolare delle mansioni. La condotta del lavoratore, oltre a ledere il patrimonio aziendale, avrebbe potuto compromettere l’immagine della società presso il committente.

Il Giudizio della Corte territoriale

La Corte territoriale ha stabilito che il licenziamento fosse proporzionato rispetto alla gravità del comportamento contestato. La reiterazione delle violazioni, il richiamo disciplinare precedente e le modalità della condotta hanno contribuito alla decisione favorevole al datore di lavoro. La Corte ha altresì rigettato l’argomentazione relativa alla patologia del lavoratore, ritenendo che essa non fosse correlata ai comportamenti illeciti.

Un altro punto centrale del giudizio ha riguardato la legittimità del controllo investigativo. Secondo la Corte, il ricorso a un’agenzia investigativa era giustificato dal sospetto di condotte fraudolente, che rappresentano una potenziale lesione del patrimonio aziendale e dell’immagine della società. Questo tipo di controllo, svolto in luoghi pubblici, non ha violato il diritto del lavoratore, poiché non era finalizzato a monitorare l’adempimento ordinario delle prestazioni lavorative, ma a verificare il compimento di atti illeciti.

Il Ricorso in Cassazione

Il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione, denunciando violazioni di legge e vizi di motivazione. Tra i punti sollevati, vi era la presunta illegittimità del controllo investigativo, l’assenza di un danno patrimoniale concreto per la società e la mancata affissione del codice disciplinare. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha rigettato il ricorso, confermando la legittimità sia del controllo svolto sia del provvedimento disciplinare adottato.

Le Ragioni della Decisione

La Corte di Cassazione ha ribadito che il datore di lavoro può ricorrere a controlli investigativi per tutelare il patrimonio aziendale, purché non si sconfinino nei controlli diretti sull’attività lavorativa ordinaria. Inoltre, è stato sottolineato che la pubblicizzazione del codice disciplinare non è necessaria in caso di violazioni dei “doveri fondamentali” connessi al rapporto di lavoro.

La decisione ha ulteriormente chiarito che la tutela del patrimonio aziendale deve essere intesa in senso ampio, comprendendo non solo i beni materiali, ma anche l’immagine e la reputazione dell’azienda.

DiAnnamaria Palumbo

Illegittimità del licenziamento per uso indebito della rete aziendale: confermata la reintegrazione del lavoratore

Cassazione Civile, Sezione Lavoro: Ordinanza n. 8943 del 4 aprile 2025

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 8943 del 4 aprile 2025, ha respinto il ricorso presentato dalla (OMISSIS) S.r.l., confermando l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente per presunto uso indebito della rete internet aziendale durante l’orario di lavoro.

La vicenda giudiziaria

Il caso trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente della società, accusato di aver navigato su internet per fini personali durante l’orario lavorativo, con una presunta durata media giornaliera di tre ore. Il Tribunale di Enna, con sentenza n. 225/2023, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, disponendo la reintegrazione del lavoratore e il risarcimento del danno. Decisione confermata dalla Corte d’Appello di Caltanissetta, che, con la sentenza n. 182/2023, aveva ritenuto non adeguatamente dimostrata la durata effettiva della navigazione e la sistematicità della condotta contestata.

La società, non soddisfatta delle pronunce di merito, aveva proposto ricorso per cassazione, articolando tre motivi principali: violazione del principio di giudicato interno; omesso esame della relazione tecnica prodotta a sostegno della tesi aziendale; errata interpretazione della lettera di contestazione disciplinare.

Le motivazioni della Cassazione

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha analizzato dettagliatamente i motivi proposti dalla società ricorrente, evidenziando come essi si traducessero in una critica meramente fattuale rispetto alle valutazioni operate dai giudici di merito, inammissibile in sede di legittimità.

  1. Giudicato interno e mancata contestazione dei fatti
    La Corte ha dichiarato inammissibile il primo motivo di ricorso, rilevando che la società non aveva adeguatamente trascritto gli atti rilevanti, impedendo alla Cassazione di verificare l’asserita violazione del giudicato. Inoltre, ha sottolineato che la mancata contestazione dell’uso del computer per navigazione privata non esonerava il datore di lavoro dall’onere di provare la durata e la gravità della condotta, elementi essenziali per la legittimità del licenziamento.
  2. Relazione tecnica e prova della durata della navigazione
    Il secondo motivo, relativo all’omesso esame della relazione tecnica, è stato ritenuto infondato. La Corte ha evidenziato che i dati contenuti nella relazione non fornivano elementi certi circa la durata effettiva della navigazione, limitandosi a un elenco di accessi senza indicazioni precise sui tempi trascorsi online. Tale lacuna probatoria, già rilevata dai giudici di merito, impediva di considerare provata la durata media di tre ore indicata nella contestazione disciplinare.
  3. Interpretazione della contestazione disciplinare
    Anche il terzo motivo, riguardante l’interpretazione della lettera di contestazione, è stato dichiarato inammissibile. La Cassazione ha ribadito che l’interpretazione della contestazione disciplinare, operata dalla Corte d’Appello, rientra nell’accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logica e congrua. La Corte ha inoltre precisato che la durata della navigazione costituiva un elemento centrale dell’addebito contestato, non modificabile nel corso del giudizio.

Principi ribaditi dalla Cassazione

Con questa decisione, la Corte di Cassazione ha confermato alcuni principi fondamentali in materia di licenziamento per giusta causa:

  • Onere probatorio a carico del datore di lavoro: Spetta al datore di lavoro dimostrare non solo la condotta addebitata al dipendente, ma anche la sua gravità e sistematicità, elementi essenziali per giustificare la sanzione espulsiva.
  • Proporzionalità della sanzione disciplinare: Il licenziamento deve essere proporzionato alla condotta contestata, valutata nella sua effettiva rilevanza e gravità.
  • Immutabilità della contestazione disciplinare: L’addebito contestato deve essere valutato nella sua formulazione originaria, senza possibilità di reinterpretazione o ampliamento in corso di giudizio.
  • Inammissibilità delle censure fattuali in Cassazione: La Corte di Cassazione non può sostituirsi ai giudici di merito nella valutazione del materiale probatorio, limitandosi a verificare la correttezza giuridica della decisione impugnata.

Conclusioni

L’ordinanza n. 8943/2025 rappresenta un importante precedente in tema di licenziamenti disciplinari, riaffermando la centralità dei diritti del lavoratore e la necessità per il datore di lavoro di rispettare rigorosi criteri probatori e procedurali. La sentenza, inoltre, sottolinea l’importanza di una corretta formulazione della contestazione disciplinare, che deve essere chiara e supportata da elementi oggettivi e verificabili.

DiAnnamaria Palumbo

Sull’abuso dei permessi ex l. n. 104/1992

Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 2157 del 30 gennaio 2025: Legittimità del Licenziamento per uso improprio dei permessi ex Legge 104/1992

La sentenza n. 2157 del 30 gennaio 2025 emessa dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, si inserisce nel delicato ambito delle controversie lavorative riguardanti l’uso dei permessi concessi ai sensi della Legge n. 104 del 1992. La vicenda giudiziaria, nata dal licenziamento per giusta causa di un dipendente della omissis Spa per improprio utilizzo dei permessi, si è conclusa con la conferma della legittimità del provvedimento da parte della Suprema Corte.

Il Contesto della Controversia

La controversia origina dal licenziamento di un dipendente, La.Gi., avvenuto il 16 marzo 2022. Al lavoratore era stato contestato l’uso improprio dei permessi ex Legge n. 104/1992, concessi per assistere la madre disabile. Secondo le indagini condotte da un’agenzia investigativa, il lavoratore, dopo essersi recato a casa alle ore 13:00 per usufruire del permesso, dedicava parte del tempo a giri in bicicletta, rientrando intorno alle 17:00.

Il comportamento è stato ritenuto sistematico e reiterato, con l’uso dei permessi destinati all’assistenza familiare impiegati per attività personali e ricreative. Tale condotta ha portato il datore di lavoro a considerare la violazione come una grave mancanza, giustificando il licenziamento per giusta causa.

Le contestazioni del ricorrente

Il lavoratore si è opposto al licenziamento, sostenendo che le modalità di controllo adottate dal datore di lavoro fossero in violazione della normativa sulla privacy e dei principi di riservatezza. Ha inoltre contestato l’interpretazione restrittiva della finalità dei permessi ex Legge 104/1992, sottolineando che la normativa non impone rigidamente come debba essere utilizzato il tempo concesso.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore, ritenendo infondate le contestazioni sollevate. Nella sentenza, la Corte ha ribadito alcuni principi consolidati in materia:

  1. Legittimità dei controlli investigativi
    La Corte ha confermato che il controllo effettuato tramite agenzie investigative, purché non riguardi l’adempimento della prestazione lavorativa, è legittimo. In particolare, è consentito verificare comportamenti illeciti o fraudolenti, come l’uso improprio dei permessi ex Legge 104/1992. Tale principio è stato ribadito anche in precedenti pronunce della Cassazione (es. Cass. n. 4984 del 2014, Cass. n. 9217 del 2016).
  2. Uso abusivo dei permessi ex Legge 104/1992
    La Corte ha sottolineato che i permessi concessi ai sensi della Legge 104/1992 devono essere utilizzati esclusivamente per l’assistenza al familiare disabile. Qualsiasi utilizzo diverso, non funzionale alla finalità assistenziale, rappresenta un abuso del diritto e può costituire giusta causa di licenziamento. Questo principio è stato ribadito in numerose sentenze (es. Cass. n. 5574 del 2016, Cass. n. 8310 del 2019).
  3. Valutazione delle condotte abusive
    Spetta al giudice di merito valutare se il comportamento del lavoratore configuri un uso improprio dei permessi. Nel caso in esame, i giudici di merito hanno concordemente ritenuto che la condotta del lavoratore fosse sistematicamente orientata al soddisfacimento di esigenze personali, in palese contrasto con la finalità dei permessi.

Conclusioni

La sentenza n. 2157/2025 rappresenta un ulteriore tassello nella giurisprudenza in materia di abusi nell’uso dei permessi ex Legge 104/1992. La Corte di Cassazione ha ribadito che tali permessi, concessi per tutelare diritti fondamentali legati all’assistenza dei disabili, non possono essere utilizzati per finalità personali o ricreative. L’abuso di questo diritto costituisce una grave violazione dei principi di correttezza e buona fede nei confronti del datore di lavoro e dell’ordinamento.

La decisione conferma l’importanza di un rigoroso rispetto delle finalità per cui il legislatore ha previsto tali benefici, a tutela non solo delle persone disabili ma anche dell’equilibrio organizzativo delle aziende.

DiAnnamaria Palumbo

Sull’autonomia del patto di non concorrenza rispetto al rapporto di lavoro, Cassazione civile, Sez. Lav. ord. 8 aprile 2025 n. 9256

La sentenza in esame si inserisce in un contesto giuridico complesso in materia di validità e congruità del patto di non concorrenza stipulato tra un datore di lavoro e un dipendente. La questione centrale riguarda la determinazione e l’adeguatezza del corrispettivo previsto per il vincolo di non concorrenza imposto al lavoratore dopo la cessazione del rapporto di lavoro.

Premessa dei fatti

Il caso trae origine dal ricorso ex art. 700 c.p.c. presentato nel 2015 dalla società (OMISSIS) s.p.a. contro il suo ex dipendente, C.D., un private banker. La società chiedeva l’inibizione dello svolgimento di attività concorrenziale da parte del lavoratore, oltre al risarcimento dei danni. Il patto di non concorrenza, stipulato nel 2014 e della durata di 20 mesi dalla cessazione del rapporto, prevedeva un corrispettivo di € 10.000 annui per tre anni, suddivisi in rate semestrali. Tuttavia, il Tribunale di Milano dichiarava nullo il patto, ritenendo il corrispettivo incongruo e indeterminabile, e ordinava la restituzione degli importi percepiti dal lavoratore.

Tale decisione veniva confermata dalla Corte di Appello di Milano nel 2017, che ribadiva l’invalidità del patto per indeterminatezza e sproporzione del compenso rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore.

Intervento della Corte di Cassazione

Con ordinanza n. 33424/22, la Corte di Cassazione annullava la sentenza d’appello, rilevando contraddizioni nella motivazione e rinviando la causa alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione. In sede di rinvio, la Corte d’appello, pur rivedendo parte delle argomentazioni, ribadiva la nullità del patto, sottolineando l’inadeguatezza del compenso rispetto alla durata e all’estensione territoriale del vincolo imposto al lavoratore.

Nuovo ricorso per cassazione

La società proponeva nuovamente ricorso per cassazione, articolando quattro motivi principali:

  1. Violazione dell’art. 2125 c.c. e dell’art. 1346 c.c.: La ricorrente contestava l’obbligo di prevedere un minimo garantito nel patto di non concorrenza, sostenendo che il patto fosse autonomo rispetto al rapporto di lavoro e che l’obbligo di pagamento del compenso sussistesse indipendentemente dalla durata del rapporto.
  2. Nullità della sentenza per motivazione contraddittoria: Si denunciava il contrasto tra l’affermazione della congruità del corrispettivo e la rilevazione della sua incongruità in caso di cessazione anticipata del rapporto.
  3. Motivazione perplessa e apparente: La ricorrente evidenziava incongruenze nella valutazione del compenso pattuito, ritenendo che la durata del rapporto di lavoro non dovesse incidere sulla validità del patto.
  4. Omesso esame di fatti decisivi: Si lamentava l’omissione di considerare il pagamento del corrispettivo anche successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro e l’interruzione dei pagamenti per inadempimento del lavoratore.

La Corte di Cassazione, nella pronuncia n. 9256/2025, ha accolto il primo motivo di ricorso, ritenendo errata la valutazione della congruità del compenso effettuata dalla Corte d’appello. La Suprema Corte ha ribadito che la congruità del corrispettivo deve essere valutata ex ante, ovvero alla luce delle clausole pattuite al momento della stipula del patto, indipendentemente dagli eventi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro.

Principi di diritto stabiliti

La Corte ha chiarito che:

  1. Il patto di non concorrenza ha una natura autonoma rispetto al contratto di lavoro, regolando i rapporti tra le parti dopo la cessazione del rapporto lavorativo.
  2. La congruità del corrispettivo deve essere valutata in relazione al sacrificio richiesto al lavoratore, tenendo conto della durata del patto e dell’estensione territoriale del vincolo.
  3. Eventuali sproporzioni o indeterminatezze del compenso devono essere valutate al momento della stipula del patto e non in base a eventi successivi.

La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata e rinviato la causa alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione per un nuovo esame, attenendosi ai principi sopra esposti. La decisione sottolinea l’importanza di una chiara definizione del compenso nel patto di non concorrenza e della sua adeguatezza rispetto agli obblighi imposti al lavoratore.

DiAnnamaria Palumbo

Licenziamento disciplinare intimato dal MAECI nei confronti di un collaboratore in Pakistan

La Corte d’Appello di Roma ha recentemente affrontato un caso di licenziamento disciplinare intimato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) nei confronti di un collaboratore del Capo Missione presso l’ambasciata italiana in Pakistan. Originariamente, il Tribunale aveva annullato il licenziamento, stabilendo l’applicazione dell’art. 63, c. 2, del d.lgs. 165/2001 per determinare le conseguenze dell’invalido recesso. Tuttavia, la Corte d’Appello ha riformato la sentenza, limitandosi a modificare il quantum del risarcimento del danno e correggendo un errore interpretativo: il contratto di lavoro era soggetto alla legge locale pakistana e non a quella italiana.

Nonostante ciò, la Corte ha determinato che le tutele interne contro il licenziamento illegittimo, quali norme di ordine pubblico, si impongono anche su contratti soggetti a leggi estere. Applicando l’art. 18 della legge n. 300/1970, la Corte ha confermato l’ordine di reintegra del lavoratore e stabilito un risarcimento pari a 12 mensilità.

Il MAECI ha contestato la pronuncia in Cassazione, sollevando tre principali motivi di ricorso. In primo luogo, il Ministero ha evidenziato la necessità di accertare ufficialmente il contenuto della normativa pakistana, sostenendo che il ruolo delle parti fosse meramente sussidiario in tale accertamento. In secondo luogo, ha criticato la scelta della Corte di considerare la normativa pakistana in contrasto con l’ordine pubblico italiano, senza aver effettuato un accertamento completo della stessa. Infine, ha contestato l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, sostenendo che l’espressione dell’ordine pubblico interno in materia di licenziamenti illegittimi risiedesse piuttosto nella legge n. 604/1966, che prevede una tutela risarcitoria obbligatoria e non reintegratoria.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso del MAECI, chiarendo che il contratto di lavoro del collaboratore era soggetto alla disciplina locale pakistana ai sensi dell’art. 154 del d.P.R. n. 18/1967. Tuttavia, ha escluso che la normativa pakistana potesse regolare le conseguenze di un licenziamento illegittimo, poiché non prevedeva né la reintegrazione né un risarcimento adeguato, configurandosi così un contrasto con l’ordine pubblico italiano.

La Cassazione ha ribadito che i rapporti di lavoro con il MAECI, pur regolati da un sistema giuridico speciale, rientrano nel quadro del lavoro pubblico privatizzato. In caso di licenziamento illegittimo, tali rapporti sono soggetti alla normativa italiana, inclusa la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 della legge n. 300/1970. Inoltre, la Suprema Corte ha confermato la giurisdizione del giudice ordinario italiano nelle controversie riguardanti lavoratori assunti presso rappresentanze diplomatiche italiane all’estero, sottolineando la prevalenza delle norme italiane in materia di licenziamenti illegittimi.

In conclusione, la Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Roma, ribadendo che i rapporti regolati dal d.P.R. n. 18/1967, pur soggetti alla legge locale per aspetti sostanziali, devono rispettare le normative italiane per quanto riguarda le conseguenze del licenziamento illegittimo. Tale orientamento rafforza il principio secondo cui le tutele italiane contro i licenziamenti illegittimi prevalgono in contesti di lavoro pubblico privatizzato, anche quando i contratti sono soggetti a leggi estere.